il nonno era ispettore delle Ferrovie. Il babbo no. Il babbo era pilota delle Forze Armate. E anche il più piccolo della famiglia doveva occuparsi, per tradizione, di un qualche mezzo di trasporto. Poteva essere la nave oppure l’autobus. Lui sognava l’astronave. Voleva diventare cosmonauta.
Già da quando aveva due anni mangiava tante arachidi salate, perché gli avevano detto che è uno degli alimenti che si mangiano lassù. Ma non era vero. Come non era vero che essere di piccola statura aiutava ad essere scelti per un posto nella stretta capsula. La scelta allora ricadeva sui treni. L’odore del fuoco e il fumo che esce dal comignolo ricordavano la partenza del razzo. E quante scintille! Sì, il macchinista del treno non era troppo distante dalle orbite ben disegnate di un astronauta. Anche se dalla terra quello dell’astronave sembra un volo in libertà assoluta, tutto è predisposto secondo orari e percorsi obbligati. Come nelle ferrovie, appunto.
Il macchinista del treno si aggiorna e passa dal vapore al motore, e dal motore alla corrente, per forza maggiore.
“Sono macchinista per la vicinanza a Jurij Gagarin, che c’entra il motore diesel con il razzo?”
Ma non poteva fermare il progredire della trazione locomotiva. Gli toccava guidare quel treno che esternamente ricordava un razzo aerodinamicamente costruito per un minor attrito con l’atmosfera ma interiormente era una noia. Un bottone da pigiare ogni venti secondi per segnalare alla centralina che sta desto e basta. Il resto lo faceva un’intelligenza artificiale. Carbone, vapore, scintille, fischi, tutto immagazzinato nella memoria, più individuale che collettiva.
Gli stessi orari, gli stessi percorsi, che sulla via ferrata non conoscono deviazioni, le stesse case nelle stesse città. Sicuramente il cosmonauta non si annoiava mai, anche se dal suo oblò vedeva l’infinito senza particolari, senza dettagli. Neanche una mosca, oppure una zanzara, che gli ricordassero la vita.
E così provò a dare la stessa attenzione all’infinito, come se fosse dietro un oblò. E, come per magia, il “tutto sempre uguale” cominciò a vivere. Gli alberi non erano più solo i fianchi della strada ferrata, ma erano presenze mutanti. Ora con i germogli, ora con i fiori, ora con i frutti. E con le stagioni non cambiava solo l’aspetto della flora circostante, ma anche la fauna. Quanti uccellini volavano sopra la locomotiva, e ricordano il volo di Icaro.
Ricordano il fatto mai compreso – la scelta della ruota a scapito delle ali della donna e dell’uomo. Ma le scelte in genere sono difficilmente comprensibili.
Icaro, il suo volo, la realizzazione del suo sogno, e la sua caduta, la sua morte e la morte delle ali. Quanti piccoli Icaro alati cadono su quella grande vetrata davanti a lui. Non si riescono a contare e non si riesce ad esser tristi per la loro fine. La velocità del treno non è compatibile con la loro fragilità. In aria, come nell’acqua, non ci si abitua a un contatto violento. Semplicemente non esiste. E questa moltitudine di insetti spiaccicati gli impediva di vedere davanti. Gli ricordavano anche il suo sogno non realizzato e mai sostituito da un altro sogno .
Allora a quel semaforo rosso, quello, sì, sempre lo stesso, usciva dalla cabina, si arrampicava su quel muso appuntito e puliva la lastra di vetro temperato, resistente alle intemperie, ma che non si puliva da solo. Quel semaforo si trovava vicino ad una casa di quattro piani non di recente costruzione e non in un quartiere borghese.
A quell’ora tante finestre di quella casa erano coperte da una veneziana di legno. Ma una era sempre aperta. Secondo le stagioni era illuminata dalla luce accesa dentro o dal sole da poco sorto sopra la città. Una donna usciva dalla porta-finestra sul terrazzo e stendeva i panni. Non tutti i giorni. Chiaro. Quando pioveva no. Ma quando pioveva neanche lui doveva pulire il suo vetro.
Insomma, era una bella donna. Non giovane ma neanche vecchia. Giusta. Giusta in tutto. Le giornate li illuminavano entrambi, inconsapevolmente, come fa il sole con noi. Dalla qualità di panni stesi capiva l’attenzione della donna alle cose belle e di qualità. Si immaginava l’arredamento della casa e il suo frigorifero. Dai movimenti della donna si capiva che mangiava solo cibo buono e non troppo. Dalla tovaglia stesa ogni tanto si capiva che non usava mai ingredienti aggressivi, che lasciano tracce indelebili.
Anche lei cambiava con le stagioni, ma era sempre bella. Si poteva capire che viveva da sola. Gli indumenti stesi, eleganti, appartenevano solo a lei. Ecco allora il sogno da realizzare. Il sogno che sostituisce quello dell’universo. E ogni volta di contatto visivo unilaterale, si chiedeva di come poter andare a bussare a quella porta, con quale scusa, come trovarla, come presentarsi?
Finché una mattina in tarda primavera vide lei a stendere un oggetto che spesso usava anche lui. Il filtro di stoffa, conico, in uso nelle cantine vinicole, ma nelle case si usava ad filtrare il kefir e il kombucha dopo la fermentazione, quando si fa l’imbottigliamento.
Si, l’attrazione non era casuale. C’era un elemento di unione ideale. Anzi, c’erano milioni di elementi. I batteri di kefir e di kombucha che vibravano in aria e solleticavano l’attenzione di lui. E chi sa se i milioni di Icaro non volevano la stessa cosa. La loro vita durava solo una vita, ma almeno in quel lasso di tempo riuscivano a far sognare colui che prima d’ora li vedeva solo come un fastidioso disturbo. Il loro battere le ali acquisiva anche una dimensione onirica. Bene. C’era la strada. Non ferrata, obbligata, disegnata da un ingegnere non sempre onesto. C’era la strada tutta da inventare.
T.