La speranza è che anche la nostra piccola voce possa portare un po’ di ricreazione in questi giorni così pieni di preoccupazione e incertezze.
Non che manchi l’offerta di letture e attività che è possibile fare senza uscire di casa. Anzi, è proprio il contrario, ed in molti casi questa offerta è anche di buonissima qualità. Noi, per esempio, abbiamo già i tavoli colmi di libri e articoli da leggere. Per non parlare dei video che sicuramente vale la pena guardare. Però ci siamo accorti che alla fine tutto questo può provocare un’ulteriore pesantezza … Allora ci siamo chiesti: “Quale potrebbe essere una lettura che distrae, incuriosisce e, senza affaticare ulteriormente il pensiero, possa dare qualche piccola ispirazione per il futuro?”
La risposta a questa non facile domanda è la serie che qui vedete: le nostre “Piccole letture non-virali” con le quali vorremmo intrattenervi per pochi minuti, raccontandovi di cibi fermentati poco conosciuti o totalmente sconosciuti.
Vi invitiamo a viaggiare con noi alla scoperta di un mondo che è molto più grande, variegato e sapiente di quanto immaginiamo. Si tratta di fermentazioni che anche noi conosciamo solo per i racconti che ce ne sono stati fatti o per quello che abbiamo letto.
Dunque non ci saranno le nostre usuali ricette guidate e fotografate passo per passo. (Ma cercheremo di riportarvi anche il procedimento di preparazione il più accuratamente possibile. E metteremo una o più immagini ogni volta che sarà possibile trovare foto libere dai diritti d’autore.)
La fermentazione parla di mondi, tradizioni, matrimoni di gusto e benessere fisico nati dalla convivenza e dalla collaborazione fra noi e i microrganismi. Non dimentichiamolo mai. E volgiamoci alla natura, ora e sempre.
Buona lettura!
Annalisa e Tomáš
P.S. Sappiamo che molti di voi stanno usando questo “tempo allargato” per fermentare più del solito oppure per cominciare questa pratica finora sempre rimandata. Ovviamente ne siamo molto felici, continuate così!
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SECONDA LETTURA
DAWADAWA
Senza pensarci un attimo, quasi tutti attribuirebbero il titolo di “Terra Regina della Fermentazione” all’Asia. E quasi tutti sbaglierebbero. Questo titolo, l’Asia dovrebbe condividerlo con l’Africa. Anzi, se le nostre ricerche ci mostrano il giusto, è probabile che alla fine l’Africa si terrà il titolo tutto per sé, tale è la vastità e la verità dei cibi fermentati di cui sono piene le cucine tradizionali di questo continente.
Uno di questi è il Dawadawa, cibo, o meglio condimento fermentato che si fa in Ghana. In realtà lo si può trovare in tutta Africa occidentale (se, come noi, avete bisogno di rinfrescarvi un po’ di geografia, potete dare una rapida occhiata alla cartina qui) con nomi differenti — come ad esempio, Soumbala — e metodi di preparazione che cambiano leggermente.

Immagine 1: Néré o albero di carruba africana (Parkia biglobosa)
Per fare il Dawadawa si usano i semi del Néré, l’albero di carruba africana (Parkia biglobosa). Quest’albero, che può raggiungere fino ai 30 metri di altezza, produce dei frutti lunghi circa 30-40 centimetri, ciascuno con una trentina di semi.

Immagine 2: baccelli contenenti i semi
I semi, che assomigliano a dei piccoli fagioli, vengono raccolti da aprile a giugno e, prima di poter essere fermentati, richiedono un lungo lavoro preparatorio.
Per prima cosa vengono messi in un mortaio dove sono pestati al fine di separarli dalla polpa. Poi vengono messi in una pentola e fatti bollire a lungo (per almeno 24 ore, cambiando regolarmente l’acqua). Segue un nuovo passaggio nel mortaio per rimuovere dai semi il rivestimento esterno (di solito nel mortaio si mette anche della cenere che facilita la rimozione di questa loro buccia coriacea). I semi sono lavati e messi nuovamente a bollire (questa volta per poche ore).
Eccoci finalmente alla fermentazione che, in confronto a tutto questo lavoro, è molto semplice e veloce: i semi sono messi in una sacca (di solito fatta di iuta o di canapa) e lasciati a fermentare per 2 o 3 giorni. La pasta marrone che ne risulta è infine modellata in palline o cubetti che sono lasciati a seccare per qualche giorno. I microrganismi responsabili di questo processo di fermentazione spontanea appartengono a tante specie diverse: Enterobacter, Klebsiella, Acinetobacter, Leuconostoc, Pediococcus, tanti per citarne alcuni.
Questa pasta-condimento dal sapore pungente si conserva per diversi mesi e viene usata per insaporire salse, riso, stufati e zuppe. Qualcuno l’ha paragonata al miso giapponese.

Immagine 3: Dawadawa
In effetti, il paragone non è peregrino. Sono infatti molte le tradizioni culinarie che hanno elaborato salse e condimenti a base di proteine fermentate in modo da poter avere a disposizione sapore e nutrimento per tutti i mesi dell’anno.
Il miso e le varie salse fermentate asiatiche a base di pesce sono diventate presenze familiari nelle cucine di tutto il mondo. Al contrario, il Dawadawa rischia di sparire anche nei luoghi dove è nato.
Un po’ di concorrenza gliela fanno i “dadi” da brodo commerciali, che costano meno e sono pronti all’uso. Ma la minaccia più grande per la sopravvivenza del Dawadawa proviene da fattori che non hanno direttamente a che fare con la convenienza di un prodotto commerciale rispetto a quello che si fa (con tanta fatica) a casa. Da un lato la progressiva deforestazione ha diminuito considerevolmente la quantità degli alberi Néré. Dall’altro accordi commerciali (poco paritari) e aiuti internazionali (poco lungimiranti) portano alla presenza sui mercati locali di semi di soia a prezzi bassissimi che spingono alla sostituzione dell’ingrediente principale del Dawadawa: soia al posto dei semi di carrube. (Per quanto noi amiamo tutto quello che si può fare fermentando la soia, qui ci appare del tutto fuori posto.)
Sembra che negli ultimi anni alcune agenzie di sviluppo locali abbiano avviato progetti di piccola imprenditoria femminile per la produzione e la distribuzione del Dawadawa tradizionale. In questo modo si mira innanzitutto a sostenere il reddito familiare ma anche a proteggere l’ambiente e un alimento tradizionale.
Il Dawadawa è molto più che una bella tradizione culinaria. Il suo valore nutrizionale, sociale ed ecologico ne fanno un “bene comune” di importanza inestimabile per la salute di chi lo mangia e, a ben vedere, di tutta l’umanità.
A.
Fonte per le immagini 1, 2 e 3: Wikipedia, uso libero sotto Creative Commons Attribution-Share Alike